Nature Ambassadors ricerca il desiderio di conservazione
Oggi, le azioni di conservazione della fauna selvatica sono sempre più complesse da organizzare. Perché conservare implica avere rispetto e pazienza, e perché la fauna selvatica, in quanto selvatica, spesso non suscita quella tenerezza che sono in grado di far nascere le immagini di cani e gatti che infestano internet. A maggior ragione, quindi, se si vogliono organizzare iniziative del genere, come nel caso del progetto Nature Ambassadors, è necessario puntare sulla forza di squadra. E la squadra è composta da persone, persone che si sentono coinvolte e davvero tengono all’obiettivo di salvaguardare la natura. Ecco perché è essenziale interrogarle, prima di intraprendere un’azione specifica, per capire quali specie conoscono e sentono di voler davvero proteggere, combattendo e mettendosi in gioco in prima persona.
La mission della ricerca
Il lavoro del team di ricerca oggi protagonista è esattamente finalizzato a tale scopo: “valutare le conoscenze e le preferenze di conservazione degli studenti delle scuole secondarie, quali fattori influenzano le loro conoscenze e la loro volontà di proteggere le specie locali secondo l’Explorer’s Mindset” spiega Martina Panisi, biologa.
Nella pratica come ha agito? Con il suo team, composto da colleghi biologi ed educatori, ha visitato le sei scuole secondarie delle regione di Morogoro e Pwani. Nella prima fase ha coinvolti 211 studenti, chiamati a identificare le foto di 54 animali locali e introdotti nei dintorni delle scuole per poi scegliere quali specie vorrebbero proteggere, quali non amano e perché. Un vero e proprio “interrogatorio” che si è rivelato prezioso e ricco di sorprese, perfetto per comprendere in che direzione proseguire.

Una crescente consapevolezza naturale
Un altro obiettivo essenziale di Nature Ambassadors è anche quello di monitorare i cambiamenti nelle conoscenze, nelle preferenze e nella volontà di proteggere prima e dopo le attività di educazione ambientale all’aperto realizzate con i loro insegnanti. Un’altra sfida per il team di ricerca che ha misurato il livello di empowerment e di impegno nelle attività di educazione ambientale all’aperto da parte degli studenti, incrociando questi dati con alcuni indicatori demografici e socioeconomici.
Registrato il punto di partenza, per tirare le somme e le opportune conclusioni, ora è necessario aspettare alcuni mesi: “dopo lo sviluppo di attività di educazione ambientale all’aperto con i loro insegnanti, le indagini saranno ripetute per identificare i progressi e i cambiamenti” spiega Panisi.
Un lavoro in divenire la cui efficacia è già stata verificata nell’Isola di São Tomé, in Africa Centrale. Martina era lì, è testimone diretta, e infatti racconta che “in quell’area, lo studio così condotto è stato importante per capire che le ragazze e gli studenti delle aree urbane sono meno informati sulla fauna locale. Ci ha permesso di selezionare le specie più adatte a diventare il simbolo delle campagne di educazione ambientale, sulla base delle preferenze e delle giustificazioni degli studenti”.
Questo conferma che si tratta di un metodo replicabile ovunque ci sia bisogno di capire meglio come i bambini vedono e valutano gli animali. Ovunque, ma senza illudersi di non incontrare difficoltà.
Sfide locali e speranze generali
Lo testimonia Theodora Venance, compagna di lavoro di Martina, originaria della Tanzania: “Alcuni intervistati hanno una conoscenza limitata della conservazione, quindi è necessario una domanda per assicurarsi che abbiano compreso il concetto in modo efficace. Questo comporta più tempo e pazienza ma… ne vale la pena!”.
Col tempo e con i giusti modi si riescono infatti a ottenere informazioni preziose, utili a informare i decision maker sul livello di consapevolezza e comprensione della conservazione della fauna selvatica da parte di studenti e insegnanti. “Le potranno anche utilizzare per adattare i loro sforzi e programmi educativi e renderli più coinvolgenti ed efficaci nella promozione di ogni azione di conservazione” spiega Venance. E aggiunge che i risultati della loro ricerca arriveranno a impattare anche sulle strategie educative progettate nelle scuole primarie e secondarie, in modo da includere più attività all’aperto nel curriculum scolastico. Poi conclude con una speranza, molto ambiziosa ma non impossibile: “la conoscenza della consapevolezza e della comprensione della conservazione della fauna selvatica da parte della comunità potrebbero invogliare anche le autorità locali a progettare programmi di coinvolgimento della comunità che risuonino con i residenti (in particolare con gli studenti), favorendo un senso di appartenenza e di coinvolgimento nelle attività di conservazione”. I dati non mancano, e non mancheranno, e la voglia di conservazione si può coltivare e nutrire, con un mood in perfetta sintonia con l’intera filosofia fondante di SeedScience.

Articolo di Marta Abbà con il contributo di Theodora Venance e Martina Panisi.
Curioso di conoscere altri aspetti di questo progetto finanziato dalla National Geographic Society? Qui abbiamo parlato delle attività di educazione.
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